Elba isola di poeti e narratori

Elba isola di poeti e narratori è un'antologia, ma non un' antologia critica perché non sono una critica, né desidero esserlo. E' il percorso di una lettrice che ha con la parola scritta un rapporto emotivo, empatico, emozionale e non intellettuale, che tenterà di dare uno sguardo sugli scrittori elbani e sull’Elba nella letteratura.

venerdì 8 marzo 2013

Bartolommeo Sestini. Il farmacista poeta di Ornella Vai



IL FARMACISTA POETA.

Bartolommeo Sestini (Fauglia, 08 agosto 1889 – Capoliveri 1 ottobre 1963)

Credo che i vecchi Capoliveresi si ricordino di Sestini più come Farmacista che non come poeta. Come tale e come scrittore è stato presentato alle generazioni più giovani con due opere, uscite l'una, in occasione del centenario  della nascita del poeta, curata dal Prof. Alfonso Preziosi, dal titolo “Omaggio all'Elba” e l'altra dall' Avv. Romano Figaia, che di Sestini fu, prima  amico, ed ora estimatore, che ha curato e commentato un manoscritto avuto da Leonida Foresi, grande amico e confidente del Sestini, dal titolo “Perdio,o 'Elba?...'”, in occasione delle celebrazioni per il centenario della nascita del comune di Capoliveri.
Sestini arrivò a Capoliveri fresco di laurea, nell'ottobre del 1914, per dirigere la locale farmacia, allora situata al piano terra dell'edificio ove è collocata la lapide di un'altra “gloria” nostrana, l'anarchico Pietro Gori. [attuale Piazza Matteotti]. Andò via da Capoliveri nel 1920, dopo aver contratto matrimonio con la capoliverese Giuseppina Fava , per trasferirsi prima a Milano, poi a Firenze. Nel 1947 Sestini ritornò a Capoliveri, dove rimase fino alla morte, nel 1963.
Quello che traspare dalle sue opere, sia in prosa che in poesia, è il grande amore per Capoliveri e la sua gente,  che egli sente tanto simile a sé, chiusa, poco incline a nuove amicizie, fiera, pur nella  miseria,  i volti duri, quasi scolpiti nel ferro del Monte Calamita. Egli ama il piccolo villaggio d'altura, i suoi panorami stupendi, ora descritti con versi sereni “  E' il piccolo oscuro villaggio/che appare vestito d'azzurro/ come le antiche immagini/ nei freschi bizantini/ Vengono spesso le nuvole/al modo di branchi d'uccelli/migratori: giuocano in alto,/ poi si fondono lontano/ di Colori di Madreperla. [Omaggio all'Elba -Capoliveri], o con visioni claustrofobiche, “Parole al sole – “Meriggio Estivo “ L’afa ha fatto del cielo una prigione./ Scoppian quasi dal canto le cicale./ Grava su tutto un incubo di male/ un senso muto di disperazione./ il motivo dell'aridità, dell'isolamento, della solitudine, simboli del limite invalicabile che impedisce all'uomo di mettersi in contatto con gli altri e lo condanna all'isolamento; l'orto, luogo chiuso, immagine concreta di una prigione da cui non si può evadere, ci ricordano un altro Meriggiare, di un poeta, Eugenio Montale, ben più famoso di Sestini, che in un altro pomeriggio estivo, prova lo stesso senso di solitudine e claustrofobia provate dal Sestini, oppure con immagini più aspre:
Or sull'alto selvaggio Calamita/ tace lontano la tua gente, in seno/ alla tua solitudine, Tirreno/ vivendo ancora la selvaggia vita / [Perdio, o l'Elba?... –Capoliveri]
E, alla “selvaggia via” Sestini fa riferimento anche ne “La preghiera del minatore”, non come rivendicazione delle dure e difficili condizioni di vita di coloro che lavoravano nelle miniere, in appoggio alle lotte socialiste o sindacaliste. La sua indole solitaria gli impedì di aderire ad un qualsiasi movimento o partito. La poesia fu dettata dalla sua pietà ed umana solidarietà verso questa gente costretta non a vivere, ma a sopravvivere, ed affrontare spesso una morte tragica ed impietosa, nelle viscere di quella terra che li ha sepolti sin dall’età giovanile, sentimenti quindi profondamente umani, senza assumere peraltro il tono di una denuncia sociale.

La preghiera del minatore

Mazza e piccone, o Malo Dio, ci desti,
contro la terra a sfrenar l’ira nostra:
ci condannasti in un’oscura chiostra
dove alla Morte schiavi ci rendesti.
Figli del sole, all’ombra incatenati
portiam nell’ombra il marchio del dolore
e l’odio contro te chiuso nel cuore,
contro le gioie cui non siamo nati.
Stravolti gli occhi e accesi di fatica
scavian cantando intra la terra rossa,
per noi scaviamo quella stessa fossa
onde vien fuora il pan che ci nutrìca.
E a te, che delle madri le preghiere
guardi, chiedenti per i figli il Bene,
già pronti a trascinar nostre catene,
a te, dei ricchi umano giustiziere
Dio della Gloria, Dio della Beltà,
l’odio scagliam dei nostri cuori affranti,
che da quest’ombra a te salga tra i canti
della Giustizia e della Libertà.

Ilva 1913, n°479

Parole amare, dure, vergate con la penna sulla carta quasi come il piccone sulla roccia.
Sono parole uscite dalla penna di chi quotidianamente vedeva e viveva, anche se di riflesso, la dura condizione del minatore capoliverese. Parole uscite dalla stessa penna dell'uomo che, 50 anni dopo, volle scritto sulla sua lapide : E come ho io perso,/ tanto tempo Signore,/ per vivere?

 Ornella Vai

2 commenti:

  1. Dunque capoliverese d'adozione che dalla nuova patria prendeva la fierezza e il temperamento "sanguigno". I versi, pieni di passione e risentimento, sembrano davvero colpi di piccone, anche se lui era solo spettatore delle altrui fatiche, dimostrando sensibilità verso gli oppressi e capacità d'immedesimazione. Greazie a Ornella e grazie a Sandra per queste chicche
    M.Gisella Catuogno

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  2. per puro caso ho conosciuto questo poeta che,come me,non esita a colpire il dio malvagio responsabile di tante ingiustizia sulla Terra; così questo giorno non è stato inutile

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